UFFICIO STAMPA: MIMMO MORABITO

TANTE STORIE FANNO STORIA

..Quel documentario, di taglio poveristico (era costato nove milioni) ma rigoroso e impeccabile, nella costruzione, negli inserti di repertorio, nei documenti proposti e nelle interviste, era uno dei pochissimi a occuparsi della nostra storia (si va dal ’43 a metà degli anni Cinquanta) e forse l’unico — tanto che fu subito annesso dalla nuova sinistra e duramente attaccato da parte comunista — a dare la parola ai non protagonisti, semplici operai, oscuri combattenti partigiani, nella convinzione che questo fosse l’unico modo, anche se ingenuamente utopistico, di risarcire quanti erano stati defraudati dalla storia ufficiale, dalla quale, pur essendo gli attori principali, erano poi stati, in definitiva, espulsi.

L’opera, sgradevole ma interessante, con alcune testimonianze illuminanti e una sua fissità magnetica a stamparsi nel ricordo, nasceva dalla ripulsa sessantottesca della Storia ‘scritta dall’alto’ ma insieme anche dall’esigenza di non disperdere ciò che ciascuno ha vissuto in prima persona, quella memoria orale destinata a scomparire se non esistessero macchina da presa e magnetofono.

Pietro Pintus, BIANCO E NERO n° 4 – 1986

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CANTAR DEI TEMPI OSCURI

Fogli di diario degli anni sessanta

La memoria recente eppure già «materiale d’archivio», documento di una cultura e di un costume decisamente spazzati via dalla gigantesca «mutazione» antropologica, sociale, politica degli Anni 70.  Protagonisti del film di Nino Bizzarri sono quattro «personaggi» degli Anni ’60 che raccontano sé stessi: Ricky Gianco, Umberto Bindi, Rina Gagliardi e Gianni Borgna. La scelta dei quattro protagonisti è senza dubbio «sintomatica»: due esponenti del mondo musicale e due esponenti della cultura «politica» dei nostri giorni. L’impasto di temi, motivi, personalità, esperienze è elemento di «sorpresa», ma anche matrice di esiti insoliti. Messi di fronte alla macchina da presa, questi personaggi diventano «materiale visivo» delle atmosfere degli anni ’60, protagonisti «in proprio» di un periodo che già qualcuno si dispone a chiamare «età», assegnandogli il senso di una temporalità conchiusa, porzione di storia compresa tra mito e crisi; il mito del «boom» industriale e la crisi di ridimensionamento economico e sociale annunciato dalla contestazione. Dietro le memorie dirette dei quattro personaggi, il film ricava «in forma di appunti» (come dice la prima didascalia – sottotitolo) le tappe visive della «miseria» degli Anni ’60 mascherata nell’avventura industriale e nei bagliori dell’ideologia. Se Ricky Gianco può parlare, oggi, di una esperienza «liberatoria» e «rivoluzionaria» del rock è solo perché la cinepresa gli restituisce una rilevanza individuale e sociale che allora fu emarginazione nelle balere e nei 45 giri di consumo, confinamento nostrano di una musicalità «nuova» che metteva in scena il corpo espandendo il ballo a gestualità prorompente, a figurazione di rapporti «eversivi» tra il corpo e lo spazio e le loro significazioni sociali.

Allo stesso modo, Umberto Bindi può rievocare l’isolamento coatto al quale fu condannato dalla stampa e dal pubblico (dall’industria discografica), per il brillante che portava al dito e per le immagini dell’infanzia (la foce, il mare, la madre) che stendevano come un fondo-tinta dolciastro sulle sue canzoni. Diversamente, la messa in scena cinematografica confina, oggi, le memorie di Gianni Borgna e di Rina Gagliardi in una «povertà liceale» che cercava il riscatto nelle mitologie letterarie del rifiuto del presente e della tradizione, percorrendo la nausea sartriana e il senso di estraneità di Camus. Sullo sfondo di questo “Cantar dei tempi oscuri “ restano le Immagini che rovesciano la connotazione epica dei cantari: restano in negativo le immagini «significative» che hanno chiuso la rabbia soffocata degli Anni ’50. Sono le immagini dei funerali di Pio XII, poste a cerniera tra i due decenni, e ricostruite dal film «disperso» di Pier Paolo Pasolini, che non a caso era La rabbia. Le sequenze dei funerali del papa sono state rimontate così come Pasolini le aveva già montate nel suo film, rintracciando gli stessi materiali d’archivio e usando lo stesso testo fuori campo. Si tratta di una «maniera borgesiana» di riscrivere le illuminazioni di un testo visivo e verbale che resta scolpito per la sua essenzialità: «Il Papa se ne va, armato di silenzio, verso là dove non c’è più Storia. Ah! Nessuno di questi dignitosi in lacrime saprà o vorrà mai sapere. per quale necessità e quali ragioni la cristianità è diventata da religione di Re religione borghese». Le immagini del «popolo» che si accosta al feretro di Pio XII suggeriscono a Pasolini immagini verbali folgoranti: «Bruni negozianti romani, popolane dallo sguardo epilettico di zingara, pallidi burocrati italici. È la folla degli anni sessanta, la marea del nostro secolo che ha bisogno ancora, disperatamente, della religione per dare un senso unico al suo panico, alla sua colpa, alla sua speranza…». I funerali dell’ultimo Papa «regale», la «folla degli anni sessanta», i volti degli emigrati nelle sale d’attesa della stazione di Milano; i tram che disegnano il ritmo della città e dell’inquadratura nei percorsi del lavoro e nelle attese; i carrelli e le panoramiche sul mare invernale di Ostia che riscrivono per l’occhio il ritmo di una canzone di Gino Paoli; le «confessioni» dei due giovani in una stanza dipinta di  azzurro… Questi Anni ’60 sembrano decisamente consegnati alla memoria, ma a una memoria non indulgente che liquida ogni nostalgia e scava nel suo malessere, quieta ma impietosa, rievocando il decennio che preparava l’uccisione di Paolo Rossi all’Università di Roma, e che covava la contestazione nella lettura «preziosa» delle ultime poesie di Pavese, nelle fantasie di morte di una immaginazione rivolta contro un tempo «infelice»  Il lavoro sulla memoria non è nuovo per Nino Bizzarri. Il suo Tante storie fanno storia, del 1975 (presentato a Pesaro nel ’77), era un tentativo di esplorare  i rapporti tra la memoria e la storia, tra la conservazione soggettiva dell’esperienza e la memoria collettiva che sorregge la storia, in qualche modo <<violentati>> dall’urgenza ideologica. In Cantar di tempi oscuri la «fascinazione dell’ideologia» si attenua per lasciare  spazio al farsi del cinema, alla presenza corposa della messa in scena, dal meccanismo di una fiction che <<manipola>> anche il documento, l’esperienza diretta narrata alla macchina da presa. L’evento-memoria in tal modo si fa «spettacolo del documento», nel ritmo delle inquadrature e dei movimenti di macchina, nei voli e negli ambienti, nel montaggio del materiale scenico e delle musiche, al di là della rilevanza del materiale extracinematografico.

Maurizio Grande, IL MANIFESTO -1979

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ROSSELLINI SOTTO IL VULCANO

PER YVES MONTAND

Appassionatamente Montand

Cinquantacinque, magici minuti, in compagnia di un divo antidivo, sognatore, ottimista ed esistenzialista, “scaldapplausi” al Moulin Rouge, e inarrivabile chhansonnier, hollywoodiano e antiamericano, rosso e comunista in crisi ma sempre, inesorabilmente, sentimentalmente, rabbiosamente Yves Montand: Perchè se c’è una qualità tra le tante del ricco, appassionato documentario di Nino Bizzarri dal Titolo PerYves Montand, è proprio il file rouge del caparbio, tenace desiderio del genio Yves di rimanere fedele a se stesso e alle proprie radici. Quelle italiane, in particolare, il Paese dove Ivo Livi (questo il suo vero nome) nacque, a Monsummano Alto in Toscana il 13 ottobre del ’21. La mamma per richiamarlo dal cortile e farlo salire su casa gridava: «Ivo monta, monta…» e la leggenda vuole che quel “Montand” sia nato proprio nell’aiuola di una soleggiata fattoria. Ironicamente, a fare da contrappunto al suo smisurato interesse “politico” per una vita vissuta pericolosamente e in modo tutt’altro che individualista, Bizzarri dà il via al film con un giovanissimo Yves che canta: «Seguo la mia strada e me ne infischio di tutto».

Ricerche d’archivio, interviste alla sorella Lidia, al nipote Jean Luis, al regista Pontecorvo che lo diresse ne La grande strada azzurra e alla sua ultima compagna, Carol Amiel, dalla quale, tre anni prima di morire nel ’91, Montand avrà un figlio. Cinquantacinque minuti conditi di immagini, cinema, musiche che vanno via troppo presto. Con Yves a tre anni che emigra in una Marsiglia stracolma di italiani, il duro lavoro nei cantieri navali poi l’idea della sorella Lidia di aprire un negozio di parrucchiere e Yves che racimola qualche soldo come shampista scoprendo cosi il suo sconvolgente amore per le donne…Edith Piaf lo vede cantare: «Che orrore quel ragazzo, cosa ci fa qui questo marsigliese». Poi sarà amore sensuale e sessuale, il giovane Montand assapora il gusto anarchico della vita bohémienne della Piaf e subirà più tardi il rifiuto della donna che lo ha stregato: «Dopo un po’ di tempo, Edith Piaff i ragazzi li buttava via – racconta Lidia Livi -. Yves soffrì incredibilmente la solitudine dell’abbandono».

Ah l’amour! Edith Piaf, Simone Signoret, Marilyn Monroe, la dolce Carol Amiel con la quale, per la seconda volta dopo un lontano ’53, Montand tornerà nella sua Monsummano. Ah, l’ideologia. Yves l’intellettuale poco tempo prima di lasciarci confessava amaramente: «Sono stato comunista di strada con tanti compagni a Parigi. Perché a quel tempo essere contro il fascismo era essenziale. Ma nessuno di noi sapeva degli orrori dei comunisti, dei gulag. Io credevo nella vittoria della verità, della giustizia sociale…Cosa dire? Arruolato nell’esercito delle idee, ho disertato».

Leonardo Jattarelli – Il Messaggero, febbraio 2005

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DOV’È LA FENICE

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Festival di Palazzo Venezia Rassegna
internazionale di film e documentari sull’arte

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DOVE’ LA FENICE di Nino Bizzarri

Brucia la Fenice: dopo i fasti, dietro la sfilata dei divi del passato, Liza Mannelli, Gregory Peck: nessuno di loro è bastato a fermare le mani dei due elettricisti ben intenzionati a provare l’incubo del fuoco, una scommessa anche per loro stessi. L’annuncio radiofonico del processo è laconico: fa rabbrividire le ossa mentre il fuoco divampa, si estende, continua tenacemente ad avvolgere ogni cosa. Gli stucchi, le statue, le case vicine oscurate dal fumo, rese quasi una nuvola in assorbibile dal cielo. Nino Bizzarri ha reso un capolavoro dì arte cinematografica: il “solo immagine” è bastato a far accapponare la pelle agli spettatori di questo dialogo senza parole fra teatro e spazio dello sguardo. Il pathos che evoca è lungimirante e desueto, come non ce ne sono oggi: senza lacrime, privo di sospiri, fa fuoriuscire lamenti lancinanti dal cuore ad ogni guizzo di fiamma. La gru della ricostruzione, i lavori a rilento dal 1997, i piccioni appollaiati sulla gru, la finta lettera del ragazzo che guarda alla riedificazione, non fanno che aumentare lo sconcerto di fronte ad una perdita che non sarà mai totalmente recuperata nella sua essenza.

di Livia Bidoli

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L’UOMO SEGRETO

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Lo sapete chi si nascondeva dietro Flaiano?

Triste, solitario, y final, un uomo guarda il mare seduto su una panchina. È un uomo nella sua piena maturità, che poco prima abbiamo visto percorrere il largo marciapiede di una metropoli straniera con un passo assieme timido e sicuro. Quell’uomo è Ennio Flaiano, così come ci appare in alcune sequenze di repertorio, d’un moderno bianco e nero che non sa di «Amarcord», scelte da Nino Bizzarri per il film che ha realizzato su di lui con il titolo L’uomo segreto.

In calendario il 5 settembre al Festival di Venezia, nella sezione «Nuovi Territori», L’uomo segreto non si sofferma sul Flaiano ironico epigrammista, sfiora appena la sua avventura letteraria, cita brevemente le sue molte esperienze di sceneggiatore, ma indaga sul modo che Flaiano aveva di guardare alle cose del mondo, al mestiere di scrivere, all’avventura di vivere. Ne esce il ritratto d’un uomo difficile, controverso, di grande purezza, «un uomo solo, moderno, senza appartenenze, che lavora in maniera frammentaria, ma che si è rivelato uno dei grandi autori del Novecento. Un maestro, un gigante, uno dei pochi destinati a restare. Il tempo lavora per lui», sostiene Bizzarri. Del resto Adelphi ha rilevato i diritti della sua opera, già quasi tutta pubblicata da Rizzoli, poi riunita da Bompiani in due volumi, ma a tutt’oggi ancora ricca di inediti, conservati nel «Fondo Flaiano» che si trova a Lugano.

Il Flaiano che Bizzarri ci racconta, sorprendendolo ancora ragazzo, senza occhiali e senza baffi, sulla spiaggia della sua città natale, Pescara, inseguendolo attraverso certe sue interviste, alcuni suoi scritti, e le testimonianze dei suoi amici più cari, Raffaele La Capria, Anna Proclemer, Franca Valeri, dello sceneggiatore Tullio Pinelli, di sua moglie Rosetta, dell’amica Bruna Parmesan, di Masolino d’Amico, figlio di quella Suso Cecchi d’Amico con cui Flaiano ha tanto lavorato, e con la quale immaginava di aprireuna botteguccia in cui aggiustare e rimpolpare sceneggiature venute non troppo bene, è un uomo che ha accuratamente tenuto in ombra gran parte di sé, salvo poi farla affiorare in termini poetici o artistici. «Un uomo molto segreto», lo definisce Anna Proclemer, che racconta d’aver saputo – lei, Brancati ed Ercole Patti e tutto l’entourage del Mondo – della malattia della figlia «soltanto per vie traverse». «Un grande amico di cui non so quasi nulla», ammette Pinelli, che ricorda d’aver avuto una conversazione un po’ più intima con lui soltanto una volta «…mentre eravamo tutti e due affacciati alla finestra dello studio di Fellini». Ma poi ecco apparire, fra gli scritti di Flaiano, la piena confessione dell’atroce sofferenza provata per la malattia della piccola Luisa, detta Le’-Le’ – una encefalite che la colpì a quattro mesi e che la segnò indelebilmente – descritta con impudica minuzia in poche, terribili righe che hanno la forza di un classico: «…avevo rovesciato la situazione, decidendo che il morto ero io», scrive Flaiano. Consumata dall’età, fragile come un piccolo coleottero, Rosetta Flaiano racconta di aver scelto di insegnare matematica a Ginevra perché «volevo che lui si liberasse dì noi. Però, quando ho finito l’anno accademico è venuto a prenderci, me e Luisa».

Al dunque Flaiano abitava solo, a via Isonzo 32. Là Fellini gli scriveva lettere affettuose firmando «un bacino dal tuo amico Federico». Affettuosità che talvolta Flaiano non ricambiava: se Tullio Kezich nella sua biografia di Fellini ha dato conto con minuzia del complesso rapporto che li ha legati, Bizzarri sceglie una lettera che Flaiano scrive al regista dopo aver rivisto, a molti anni dall’uscita, La dolce vita, cui aveva lavorato come sceneggiatore. In quelle righe Flaiano – che è stato per molto un anomalo, ma affascinante recensore cinematografico i cui scritti sono raccolti in un volume postumo, Lettere d’amore al cinema – «riracconta» con grande lucidità a Fellini il suo stesso film, definendolo «carico di pietà e di ansia per un mondo che sta uscendo dai binari».

Benché non amasse viaggiare – «la noia e la malinconia ci aspettano dovunque si vada» – Flaiano al dunque viaggiò parecchio, e per la Rai girò un lungo documentario intitolato Oceano Canada, da cui Bizzarri ha tratto le sequenze in cui lo si vede camminare per Montreal, e osservare il mare seduto su una panchina. Non è il mare di Pescara, né quello di Fregene dove è stato seppellito in un cimitero che secondo lui possedeva ancora «una dimensione accettabile». È piuttosto un panorama interiore, in cui la malinconia non ha alcuna vocazione depressiva, ma è piuttosto vitale e spesso addirittura sulfurea.

Al dunque, Flaiano somiglia soltanto a Flaiano e L’uomo segreto non fa che confermarlo: ma la battuta pronunciata dall’intellettuale Alain Cuny ne La dolce vita «Sono troppo serio per essere un dilettante, ma non abbastanza per essere un professionista», da tutti considerata una sorta di suo «ritratto in piedi», oggi, riesaminata la sua figura e la sua opera, finisce per andargli stretta. Come dice Bizzarri, il tempo ha lavorato per lui.

Patrizia Carrano – Sette, Magazine del Corriere Della Sera

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Speciale Venezia

L’uomo segreto di Nino Bizzarri, forse tra le opere più belle e struggenti di Venezia 2003, prodotta da RAI International. Bizzarri, infatti, ispeziona il lato oscuro di un grande del nostro cinema e della nostra cultura, Ennio Flaiano, uomo segreto, appunto, come dichiara Anna Proclemer nel film, tanto solare, arguto e geniale nella professione e nei suoi scritti, quanto schivo, ombroso, melanconico e autunnale nella vita privata. In L’uomo segreto scopriamo così quanto sia stato teneramente conflittuale il rapporto di lavoro tra Flaiano e Fellini. E quanto l’uomo fosse capace di celare dietro il sarcasmo.

Aldo Fittante – FILM TV, anno 11 n° 35

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PICCOLO SOLE
Vita e morte di Henri Crolla

Henri Crolla, le mani del suono

Nel buio di una vecchia pellicola uno spot bianco illumina da un lato Yves Montand che canta, giovane e spavaldo. Un altro spot illumina due mani che guizzano veloci ed eleganti sulle corde di’ una chitarra gitana. Non si vede altro, solo le mani, masi rimane incantati, ipnotizzati da quel movimento gentile e allo stesso tempo energico, da una musicalità prodigiosa. Sembra di percepire il tocco magico di Django Reinhardt, ma non può essere lui perché la mano sinistra di Django era deturpata, suonava solo con due dita, per quanto possa sembrare incredibile ascoltando le musiche che incideva. Le mani che vediamo nella pellicola sono invece perfette. Non si vede altro, ma per chiunque in Francia, a quell’epoca, non potevano che essere, senza ombra di dubbio, le mani di Henri Crolla, una delle più brillanti personalità musicali del secolo scorso. Il reperto fa parte di un appassionante documentario, PICCOLO SOLE – Vita e morte di Henri Crolla, realizzato da Nino Bizzarri, messosi alla ricerca della storia di questo singolare personaggio.

Geniale autodidatta, chitarrista d’eccezione, compositore raffinato, ha attraversato tutta la grande musica francese, ha scritto per Edith Piaf e Yves Montand, ha lavorato con Jacques Prévert, ha scritto colonne sonore per i film di Brigitte Bardot e Jean Gabin, ha fondato un acclamato gruppo di jazz. Era nato a Napoli nel 1921 ed è scomparso a Parigi nel 1960, stroncato da una malattia nel pieno della carriera. Dunque era italiano, anche se il suo nome non compare in nessuna delle nostre storie della musica, e del resto i francesi se n’erano interamente appropriati, sorvolando sciovinisticamente sulla sua origine, e trasformando il nome Enrico in Henri, e ovviamente pronunciando Crolla con l’accento sulla «a». Il documentario segue il ritmo della scoperta e a ogni passo aggiunge elementi romanzeschi alla vita di Crolla. Di più, la sua biografia sembra studiata ad arte da un creatore di romantiche leggende musicali: Bizzarri trova in un ospedale napoletano le prove della sua nascita, poi segue la storia in Francia dove Crolla era emigrato nel 1923 a soli due anni, nella baraccopoli di periferia dove è cresciuto insieme ai genitori, che erano mandolinisti ambulanti, e undici fratelli. Fin da bambino il piccolo Enrico, seguendo le orme dei genitori, aveva cominciato a racimolare monetine davanti ai bistrò, suonando il banjo. Era talmente bravo che alla fine qualcuno s’interessò a lui  lo introdusse nell’ambiente musicale parigino. Alla fine degli anni Trenta Parigi era una rigogliosa capitale della musica. Per chi suonava la chitarra c’era un faro assordante, ovvero la figura di Django Reinhardt, l’unico jazzista europeo considerato alla pari con i grandi americani. Crolla ne fu profondamente influenzato, rimanendo però sempre una sorta di numero due, benché idolatrato dalle agguerrite riviste francesi dedicate al jazz. Viene in mente la storia di “Accordi e disaccordi”, il film di Woody Allen, conSeanPenn che interpreta uno strepitoso chitarrista jazz convinto però di essere il secondo più grande chitarrista del mondo perché prima di lui c’era appunto Django. Che Woody Allen si sia ispirato a Crolla?

Crolla per suo conto lasciò comunque un segno forte nella musica francese degli anni 40 e 50.

Bizzarri intervista numerosi testimoni, la moglie Colette, il figlio Paul, si sentono le voci di Edith Piaf, di Moustakí. e Jacque Higelin. Ne esce il ritratto di un uomo d’eccezione, simpatico, ammaliante, adorato da musicisti e poeti. Qualcuno gli rimproverava di non saper leggere la musica, quindi di non essere un vero musicista, secondo i pregiudizi ancora forti in quegli anni, e non a caso a capirne interamente il talento furono i jazzisti, per definizione abituati a riconoscere il genio in musicisti privi di preparazione accademica. Ma c’è chi è pronto a giurare che nel suo stile c’era molto della Napoli delle sue origini: di quei mandolini che i suoi genitori suonavano per la strada.

Gino Castaldo, LA REPUBBLICA – 5 agosto 2005

Crolla, il “meraviglioso italiano” di Saint-Germaine

Nino Bizzarri “scopre” il geniale chitarrista di origini napoletane

L’avevano soprannominato millepattes (millepiedi) per la sua abilità e velocità con le mani sulla chitarra acustica producendo una cascata di arpeggi, glissando e svisate. Ma i suoi amici dei bistrot e dei locali notturni lo chiamavano semplicemente il meraviglioso italiano per la gioia di vivere, l’umorismo scanzonato, l’originalità innata. La sapete quella della poltrona? Un giorno Henri incontra su un ponte un operaio che trasporta una poltrona tenendola appoggiata sul capo. Lo ferma, gli parla e lo convince a mettere a terra l’oggetto d’arredamento imbottito. Poi si siede e gli dice: «Questa è la maniera corretta di usare la poltrona, non bisogna mettersela in testa ma appoggiarci le membra stanche». All’inizio il facchino prova a spiegargli, poi si arrabbia e devono intervenire i poliziotti a dividerli.

Il partenopeo Enrico Crolla o meglio Henri Crolla (il suo nome da citoyen francais) è  praticamente sconosciuto da noi ma in Francia l’apprezzano molto e lo reputano uno dei più geniali chitarristi del XX secolo.

Un giorno il regista Nino Bizzarri si è imbattuto nelle sue composizioni lavorando a uno special su Yves Montand e ha deciso di saperne di più, addentrandosi in un’indagine emozionante. È nato così Piccolo sole: vita e morte di Henri Crolla, il documentario presentato ieri a Locarno nella sezione «Cineasti del presente». Certo i dischi -i magnifici 45 e 33 giri originali con grafica semplice quanto essenziale o i riversarnenti su cd – sono polvere magica, fantasie evocatrici di un’epoca indimenticabile, orme sonore di una breve carriera professionale che conservano, ad ogni ascolto, una straordinaria carica emotiva nonostante sia passato mezzo secolo dalla sua scomparsa. Così, quasi portato per mano dalla sua musica, il regista ha cominciato un personale identikit del musicista, una ricostruzione di questo mezzo fantasma, partendo dal luogo di nascita, l’Ospedale dell’Annunziata, a Napoli nel 1920 e aiutandosi con le testimonianze di amici e familiari, andando a pescare le sue registrazioni radiofoniche e cinematografiche. Figlio d’arte, diciamo così, i suoi genitori erano mandolinisti ambulanti, suonatori che giravano per strada col piattino nella capitale del mezzogiorno del primo dopoguerra. Con un drappello di figli da sfamare (Enrico aveva undici tra fratelli e sorelle), si trasferirono nel 1923 nella periferia parigina, in un accampamento di baracche denominato La zone abitato da gitani, italiani e spagnoli. Ambienti di grande povertà, tra strade sterrate e costruzioni fatiscenti. Le straordinarie immagini, in bianco e nero, di quel periodo sono inedite, recuperate attraverso archivi pubblici. Qui Enrico conosce Django Reinhardt, inquilino di una roulotte vicina, di dieci anni più anziano, già chitarrista affermato, che fornisce i primi rudimenti tecnici al ragazzino dodicenne, suonatore di banjo e di mandolino fuori dai  caffè di Place d’Italie per raccattare qualche moneta. Viene notato da Lou Bonin e Maurice Baquet, artisti del gruppo Ottobre, un ensemble di  teatro militante e rivoluzionario che voleva «portare la poesia nelle strade», e quasi adottato dal pittore Eniile Savitry, dal disegnatore Paul Grimault, dalla banda Prevert.

Crolla è stato un personaggio straordinario degli anni cinquanta, uno dei ragazzi del periodo di Saint-German, un brillante musicista autore di canzoni e colonne sonore, morto troppo presto, nel 1960 a 40 anni.

La sua fine precoce gli ha impedito di raggiungere quella fama internazionale che pure meritava, avendo fondato un gruppo jazz sublime (Henri Crolla sa guitare et son ensemble). Era «uno di quei musicisti che inventano tutto senza che nessuno gli insegni nulla» dice, icasticamente, un suo amico intervistato.

Eccolo con la sua faccia concentrata, naso largo e sopracciglia marcate, l’immancabile sigaretta in bocca, il cappello calato (per coprire l’incipiente calvizie) e la chitarra in braccio in uno sketch dove interpreta se stesso (ricordando un po’ Ben Gazzara) in Souvenirs perdus (Ricordi perduti) di Christian Jaque. Oppure, al fianco di Brigitte Bardot e Serge Gainsbourg, in Voulez vous danser avec moi?

Il suo è un culto radicato. Ci sono giovani che si ritrovano a suonare e cantare Sanguine, un brano di Jacques Prevert (testo) e Crolla (musica), su una donna piena di fuoco come un’arancia rossa, la sanguinella. Altri maniaci collezionisti dei suoi dischi e appassionati che rifanno le sue melodie (il vero punto di forza di Crolla, capace di mettere in musica pure tante poesie di Prevert come Le Cireurs de souliers de Broadway, un cavallo di battaglia di Montand col quale ha lavorato a lungo accompagnandolo in tour). Altri vanno regolarmente a casa di Colette, la moglie, a improvvisare e divertirsi come Jacques Higelin, il suo partner nella pellicola Le bonheur est pour demain (l’ultima che ha girato quando le avvisaglie della malattia fatale già avevano colpito i polmoni) con loro due che suonano insieme la stessa chitarra, una vera improvvisazione gioiosa e fou. Ci sono dei musicisti che formano una scia calda e luminosa con le loro note, canzoni, improvvisazioni. Una corrente di allegria e buonumore come un piccolo sole, una traccia evidente di radiose origini

mediterranee. O probabilmente una fonte di luce che riscaldava tutta la scena dell’epoca, un riconosciuto genio della seicorde che ha lasciato una traccia indelebile negli ambienti più colti della capitale francese.

Henri Crolla siglava le lettere col disegno di un piccolo sole sulla sua firma, l’unico segno estroverso di un carattere timido e modesto, forse un tantino pazzerello, forse in piena sbornia surrealista.

Gli amici raccontano uno dei suoi gesti più curiosi e ripetuti. In strada, a piedi, fermo al semaforo rosso, apriva velocemente là porta posteriore di un automobile con una coppia sui sedili anteriori, si infilava dentro e rapidamente usciva dall’altra parte, lasciando gli astanti completamente sbigottiti…

Flaviano De Luca, IL MANIFESTO – 13 agosto 2005)

OPINIONI IN MUSICA

Sono grato alla Fondazione Premio Napoli per aver realizzato la proiezione del film di Nino Bizzarri dedicato alla vita e all’opera di Henri Crolla.

Non sono riuscito finora a scriverne per pura mancanza di tempo. E spero anche che in qualche modo questo sia un primo tassello (se non me ne sono sfuggiti altri)che possa convalidare un interesse continuativo della Fondazione nei confronti dell’espressività jazzistica. Sono poi grato a Nino Bizzarri. Non avevo visto il suo film che, con passione, con un coinvolgimento emotivissimo ma anche pregnante e lucidamente critico, ci restituisce la conoscenza di una personalità così forte, così luminosa come quella di Crolla.

Che poi, come recitava la locandina del film, Crolla sia stato o meno uno dei più grandi chitarristi jazz del ‘900, è una questione che a me pare vada giudicata come scarsamente interessante.

La storiografia jazzistica è stata scossa, nell’ultimo trentennio, dalle fondamenta. E’ la nozione stessa di “grandezza” (e quindi di conseguenza quella di autori “minori”) ad essere entrata in una crisi profonda. Questo alla luce di una messe cospicua di studi specialistici, di monografie che con nuovi criteri hanno esplorato protagonisti e movimenti del jazz, alla luce di vere e proprie piogge di ristampe discografiche.

Oggi noi andiamo studiando, con criteri filologici, le diverse accezioni che la parola, e la musica, jazz, hanno assunto nel corso dello scorso secolo a seconda del periodo e dello spazio geografico; studiamo le mutazioni antropologiche profonde che hanno mutato (secondo alcune correnti di pensiero barbaramente assassinato) anche il jazz; andiamo ricostruendo interi pezzi mancanti della sua storia. (…)

E’ dunque per tutte queste ragioni – le ho enucleate ed esemplificate in fretta e un po’ casualmente, ma spero di aver reso un po’ l’idea – che non credo abbia molto senso categorizzare oggi se e quanto un chitarrista jazz sia stato uno dei più grandi del XX secolo. Meno che mai, poi, nel caso di Henry Crolla: la clamorosa lacuna in fatto di studi sulla sua figura, soprattutto per quanto riguarda la ristampe in cd della sua discografia originale (che il film ci mostra essere magnificamente ampia), ci lascia – speriamo ancora per poco – senza alcuna possibilità di esprimerci in merito a un percorso che però – la pellicola di Bizzarri lo fa capire bene – “rischia” di farci riscoprire perle musicali di primissima grandezza. In parte pubblicate in questi anni in tre cd nella serie “Jazz in Paris” della Universal. Ma è troppo poco. Troppo poco perché solo ristampe organiche e filologicamente attendibili di sedute di registrazione complete, di album così come erano stati concepiti dall’autore e non antologie; solo l’accesso a tutto ciò che ha registrato Crolla, sia in veste di leader di gruppi jazzistici che come autore di colonne sonore che come accompagnatore di Montand e di altri artisti; solo la catalogazione completa delle sue musiche e delle sue canzoni, potrà consentire una valutazione critica attendibile della sua opera. Sperabilmente in un’ottica che sia aggiornata al quadro delineato e non decidendo il suo posto in classifica! Troppo poco per una figura sfaccettata, sfuggente, geniale, poliedrica come quella che il film di Bizzarri ci restituisce. Troppo poco per ritrovare quel suono personalissimo, lieve eppure così intenso e magico, così ricco di novità per l’epoca, con cui entriamo in contatto da spettatori di PICCOLO SOLE.

Pietro Mazzone – Fondazione Premio Napoli – 2007

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PICCOLA INTRODUZIONE A BUZZATI

Milano, le Dolomiti, le donne. Un cortometraggio di Nino Bizzarri mette in luce l’anima passionale di un artista a volte malinteso.

Molti hanno visto in  Dino Buzzati un certo qual tono freddo e aristocratico, più nobile che altoborghese. Taluni si sono spinti fino a sottolineare il suo presunto cinico distacco dalle cose e dagli uomini Invece no. Il linguaggio del corpo nega queste interpretazioni superficiali. Ma al linguaggio del corpo servono le immagini, non bastano le parole. Eccole qui, allora. Una manciata di minuti dei 38 e mezzo complessivi che compongono questa Piccola introduzione a Buzzati di Nino Bizzarri aiuta a capirlo. Le mani sui fianchi, una grattatina in testa, la sigaretta assaporata tenendola verso l’interno della mano, gli ampi gesti delle braccia, il sorriso malizioso, quando la bella intervistatrice gli chiede che cosa sia per lui l’amore. No, Buzzati non era un soldatino di piombo. Era un uomo passionale. A modo suo, con discrezione. Certo, «un perfetto gentiluomo», «un solitario piacevolissimo, abbastanza d’accordo con se stesso e con la vita», come scrisse Eugenio Montale. Ma anche uno che s’arrabbiava un po’ quando gli si parlava di «scrittori impegnati»: «Non vedo perché uno scrittore debba essere impegnato politicamente. No. Moralmente sì, politicamente no».

Un documentario è fatto di immagini. E le immagini possono dire molto di chi, come Buzzati, tace parlando con la scrittura. «La qualità migliore del giornalismo coincide con la qualità migliore della letteratura», afferma deciso con voce pacata nel salotto in bianco e nero di una vecchia intervista Rai. E torna a rivivere la sua carriera di scrittore. Barnabo delle montagne? «Allora non era come oggi. Allora vendere mille copie era un successo». Il deserto dei Tartari? «Venne accolto molto bene».

E proprio lì, al film di Valerio Zurlini del ’76, uscito quattro anni dopo la morte di Buzzati, va a parare Bizzarri, «leggendolo» in parallelo alle parole di Dino. La sequenza dell’arrivo del sottotenente Drogo alla fortezza Bastiani ci porta le riflessioni del suo creatore: «L’uomo è un’esagerazione della natura» e «per sua natura è condannato a essere infelice» (poi si gratta la testa dicendo che sì, forse la vita di qualcosa di simile all’uomo, su altri pianeti, potrebbe essere più lieta della nostra…). Nell’immensa pianura che fronteggia l’avamposto nel deserto, ecco che avanza un cavallo bianco, un cavallo «straniero», forse l’annuncio dell’arrivo dei nemici tanto attesi. E Dino passeggia tranquillo in una Milano piena di gente, di semafori rossi e di «1100» che oggi ci paiono così belle… È lui il cavallo bianco? Ecco alcuni quadri del suo Poema a fumetti e la domanda sull’amore. «Simpatia, trasporto, affinità di gusti, certo, ci sono, sono molto diffusi. Ma l’amore vero è un’altra cosa. Anche fra i miei amici, sono certo che molti non si sono mai innamorati… Parlo dell’Amore con la A maiuscola, quello della letteratura dell’Ottocento… Se parli, mangi, bevi, dormi normalmente, allora vuol dire che non puoi essere innamorato. Essere innamorati è come avere un bubbone in faccia. Impossibile non vederlo». Ed ecco, a proposito di donne, la bellissima modella Runa Pfeiffer. Ed ecco la dolce Almerina, che fu moglie e musa dello scrittore.

E la malattia, e la morte, che troviamo sempre acquattate da qualche parte nell’opera di Buzzati, pronte a colpire, dove sono? Le abbiamo viste prima, in apertura, dopo alcune fotografie che fissano momenti sereni al mare o a tavola con i colleghi. Al settembre del ’71 data l’ultima vacanza a Cortina, nel ventre materno delle Dolomiti. Voce fuori campo di Bizzarri: «Chiede all’amico Rolly Marchi di fotografarlo di schiena». Ecco la celebre foto di lui con il bastone, con passo incerto. E il disegno fatto sulla pagina di un’agenda che lo replica… Ancora la voce fuori campo: «Chiede uno specchio». Perché «voglio vedere che colore ha la morte». Un duro? Un eroico soldato che mostra il petto al nemico assente? «Varca con piede fermo il limite dell’ombra, diritto come a una parata, e sorridi anche, se ci riesci. Dopo tutto la coscienza non è troppo pesante e Dio saprà perdonare». È Il deserto deiTartari. E la vita di Buzzati.

Daniele Abbiati, IL GIORNALE – 17 settembre 2007)

Antologia delle meraviglie

Nino Bizzarri, regista appartato, sta mettendo insieme una personale antologia sulle meraviglie d’Italia: uomini e cose. Qualche volta i suoi racconti arrivano sugli schermi di un festival dove ottengono premi e lodi dei critici che, contemplandoli, si accorgono di avere imparato qualcosa (esperienza, questa, ormai rara per un cinefilo).

Ritorno nella terra di Piero, per esempio, dona spessore al maggiore pittore italiano quattrocentesco restituendolo al contesto – al paesaggio più ancora che a un ambiente storico – che lo nutrì. Ecco, quasi affidati a una dimensione pittorica, i luoghi prossimi a Urbino, una città sorpresa mentre la neve la riconsegna al silenzio; ecco, nel camposanto di un paesino dimenticato, Monterchi, protetta dagli abitanti, la Madonna del parto, vista prima in bianco e nero e poi a colori, che nella sua carnalità desueta fa pensare alle icone bizantine e al pensiero teologico che ne era all’origine; ecco, sublime ciclo pittorico, l’affresco sul ritrovamento della vera Croce di Arezzo.

Un espediente del film che non è solo tecnico, quell’aprirsi di finestre e di porte, mette di continuo in rapporto il dentro e il fuori, la pittura e l’ambiente.

AI festival di Locarno i critici e gli spettatori hanno scoperto, nell’estate del 2005, un musicista fin lì sconosciuto: Henri Crolla. Con Piccolo sole, ritratto di un italiano emigrato in Francia – suonatore di banjo e poi di chitarra, compagno di artisti famosi e creatore di colonne sonore, big del jazz che morì quando aveva quarant’anni – Bizzarri svela sensibilità ed estri di un musicista, evitando le soluzioni care ai registi italiani dei quali rifiuta i raduni dove ci si lamenta per la penuria dei fondi elargiti alla cinematografia. Lui no. Di solito sta zitto, quando si arrabbia dissente duramente dalle opinioni correnti nel teatrino della politica, studia un po’ di tutto, dai testi dei mistici ai manuali sul doppiaggio, alle biografie degli italiani illustri o meno (adesso è alle prese con Mario Luzi in un’interpretazione dell’opera e della vita del poeta che si intitola Nulla va perduto). Bizzarri si è creato una nicchia negli spazi isolati di Rai International, e lì, in silenzio, costruisce i suoi mediometraggi che rivelano un dono raro: magari affidandosi a quello che chiamano “materiale di repertorio” (la Marsiglia operaia di altre stagioni, la spiaggia adriatica osservata dal treno, le mani di un musicista, un incendio che distrugge un teatro come in Dov’é la Fenice) rinvenire l’entroterra di un personaggio e dare una storia a figure, a luoghi di forte, ignota valenza simbolica: a un cantante celebre (Per Yves Montand), a Ennio Flaiano (L’uomo segreto), alla Duse, agli attori della D’Origlia-Palmi che praticarono con ingenua purezza il teatro “popolare”. E’ la terza, la quarta volta che Nino Bizzarri viene “scoperto”. Cominciò con interviste a rappresentanti del mondo operaio. Continuò con lungometraggi a soggetto che colpirono per l’eleganza delle immagini e la finezza dello studio psicologico (vedi La seconda notte, prova di esordio di Margherita Buy). Torna adesso alla ribalta con “documentari” (veri e propri racconti) che trovano quasi per caso degli estimatori. Per loro Nino Bizzarri è un autore, uno dei pochi del nostro cinema.

Francesco Bolzoni, Rivista del Cinematografo – dicembre 2005

 

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I FILM DI NINO BIZZARRI

(estratto dal catalogo della Personale svoltasi a Palazzo Venezia, settembre 2006)

Il lavoro di Bizzarri, noto anche per un paio di lungometraggi a soggetto, scava con rara profondità nelle pieghe della biografia dei personaggi di cui decide di occuparsi, enucleando con cura una sequenza di schegge di memoria. Lo fa attraverso uno studio attento e partecipato di lettere, testimonianze, documenti, fotografie, filmati, con l’acribia filologica dello storico senza l’insolenza di chi cerca un’impossibile verità assoluta o banalmente preconfezionata. Bizzarri entra in punta di piedi nelle vite dei suoi “narratori”, incontrando le persone che li hanno conosciuti e amati, visitandone le case, gli alberghi che hanno abitato, i luoghi, per alcuni i sepolcri, alla ricerca di tracce. Il percorso si dipana ellittico, verrebbe da dire ipnotico, fotogramma dopo fotogramma con una regia minuziosa che trova i tempi e i silenzi giusti per la riflessione.

Ciò che si presenta davanti agli occhi dello spettatore è un viaggio alla scoperta o, in qualche caso, alla riscoperta di profili biografici che pur conosciuti si rivelano nella luce che Bizzarri, con il suo stile personale, pacato ed elegante, intende proporci. Percorsi in cui alle immagini fanno da contrappunto le voci narranti fuori e dentro il campo, coadiuvate dalle musiche, scelte ancor prima di girare a designare un metodo: le durate delle sequenze sono dettate dai movimenti musicali e i brani non vengono mai sfumati; un modo di procedere che assomiglia a quello di un coreografo e che di conseguenza tende a dare unità inscindibile al rapporto suono-immagine-testo.

Vengono affrontati così i temi chiave dell’esistenza: la nascita, le parentele, la terra d’origine, la scoperta del sè, la gioia e spesso la sofferenza del creare, vivere e trasmettere l’arte, fino a giungere al distacco, alla morte da dove però ricomincia la memoria. Un cinema di memoria dunque che cerca e sa cogliere le impronte lasciate da Rossellini (di cui Bizzarri fu assistente per Anno Uno) e dalla Bergman a Stromboli a cinquant’anni dai giorni i cui giravano Stromboli terra di Dio. Che ricostruisce con occhio lucido e accorato i lati dolenti che celavano la Duse e Flaiano. Quest’ultimo in L’uomo segreto (candidato al David di Donatello nel 2004) appare non solo come il celebre uomo d’ingegno, spiritoso, celebre battutista e fustigatore di costumi ma come un uomo dal cuore tragico e poetico che ha sofferto nella sua purtroppo breve esistenza, tutte le forme di dolore. Con Per Yves Montand (2002) e il conseguente Piccolo sole. Vita e morte di Henri Crolla del 2005 (candidato al David di Donatello del 2006) Bizzarri si è addentrato nelle vicende straordinarie dei due immigrati italiani, naturalizzati francesi, divenuti rispettivamente uno dei simboli della canzone francese degli anni ’50 e uno dei chitarristi più geniali della prima metà del secolo che accompagnava Prèvert nelle letture delle sue poesie e ha suonato in decine di dischi e colonne sonore di film fino alla sua morte prematura a quarant’anni. C’è poi un omaggio inusuale e straordinario a Piero della Francesca, artista altissimo di cui non si comprenderebbe l’importanza senza visitarne i luoghi natii, quelli delle committenze artistiche: Borgo San Sepolcro, Arezzo, Urbino, Monterchi, dove la Madonna del Parto rivela ancora oggi quel secolare percorso iniziatico saldato alla cultura popolare che ha impedito il suo dislocamento altrove. Fino a giungere al recente lavoro su Luzi, il poeta scomparso da appena un anno di cui Nulla va perduto rappresenta l’ultimo atto di presenza fisica e in voce.

Bizzarri è un regista appartato, si è detto, uno di quelli che nella tranquillità del suo studio prepara le proprie uscite con la macchina da presa alla ricerca delle storie di uomini e donne da narrare, nella convinzione, forse venata di nostalgia, che le varie forme d’arte non siano disgiunte le une dalle altre ma che facciano parte di una visione complessiva e umanistica, ormai in gran parte smarrita, e che sia possibile ritrovarle nella loro reciproca compenetrazione che offre il cinema magari talvolta più dichiarata che reale, ma almeno da alcuni tenacemente immaginata.

Tommaso Casini (Cinema 60)

 

OMBRE LUCENTI

 

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Bellaria Film Festival

(,…) In gara, per soli adoratori del vero teatro, quello che si deve completamente perdere nel fantastico estremo e radicale, come auspicava Artaud, Ombre lucenti, eccentrica produzione Rai. Il regista Nino Bizzarri (produttore Franco Porcarelli, consulenza di Marianna Ventre, team che quando incide: un Montand, un Henri Crolla, una Duse… lascia segni indelebili) rende omaggio postumo alla compagnia D’Origlia-Palmi, buttandosi negli scantinati polverosi <di Bene> e trova, nei bauli abbandonati, reperti, foto anche coloniali, ricordi di sopravvissuti (l’attore Mezzanotte), costumi, spade e due illustri teste a favore (Bussotti e Paolo Poli, che li contrappone ai belli senz’anima di oggi: <bravi, ma non in tv, solo nel mio letto>). Come Ed Wood, D’Origlia—Palmi fecero teatro drastico per happv few, finché le forze, e la forza pubblica, non glielo impedirono. I loro Sem Benelli, D’Annunzio, Shakespeare, santi e sante barocche crearono un teatro moderno, striando il classicismo di melò: quanto più conservatori e inattuali, tanto più sovversivi.

Roberto Silvestri, IL MANIFESTO – giugno 2007

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OMAGGIO A LUZI: PERCHE’ NULLA VADA PERDUTO

Presentato oggi alla Casa del Cinema di Roma, nell’ambito della rassegna documentaria Italia Doc curata da Maurizio di Rienzo, Nulla va perduto di Nino Bizzarri è un tributo al sommo poeta Mario Luzi, scomparso all’età di novant’anni nel febbraio del 2005. La narrazione per immagini passa morbidamente dal rumore schietto di una vecchia macchina da scrivere percossa dall’anziano poeta, al suo citar Rilke (il nesso inestricabile poesia-religione), immagini di lui ripreso a casa sua con un tenero cappotto rosso mattone, il suono della voce durante una delle ultime letture tenute in pubblico prima della morte, gli splendidi, intensi, paesaggi del senese (con quella tortuosa strada che, immersa nel sole, conduce il viaggiatore da Siena a  Pienza).

Tutto questo e molto di più in tre quarti d’ora che scorrono veloci passando dalla contemplazione dei capolavori senesi di Simone Martini (cui il poeta dedico un saggio) al ridere sgargiante di Luzi che discute con un gruppo di toscanacci veraci la differenza di significato che sussiste tra lo Strullo (come si dice a Siena) ed il Grullo (come si usa a Firenze). Palermo e Pietroburgo. Cosi lontane eppure cosi vicine, come Ie due polarità del sentire. Il cinema di Dreyer. Cosa significhi ieri, oggi e domani il fare poesia. Un’opera densa ma di ampio respiro. Un sincero tributo ad un Nobel mancato (definì quello dato a Fo come un’intronazione della cultura contemporanea), considerato da molti il più grande poeta italiano contemporaneo. Un ermetico, I’ermetico per eccellenza, divenuto famoso sin da giovane, come raramente accade. Ma dove il talento è cosi evidente, non si puo che prenderne atto.

Documentario da reperire e conservare, come un piccolo gioiello visivo, per serbare il ricordo di un grande del ‘900.

MASSIMO FREZZA, ZaBrisKie pOint, marzo 2007

PREMIO SPECIALE PLATINUM FLOWER

per l’insieme dell’opera

(2013)

 

motivazione

 

Poesia e misura: il  cinema di Nino Bizzarri. Metodo e fantasia. Incontro  di luci e di racconto.

Dopo gli studi di architettura, Nino Bizzarri collabora a riviste di cinema quali La Rivista del Cinematografo e Ombre  rosse.

Ha scritto e diretto diversi film (mediometraggi, lungometraggi e documentari) sia per la televisione che per il cinema, tra cui: Cantar di tempi oscuri (1978), La seconda notte (1985-1986), Fiori di siepe (1988), Segno di fuoco (1990-1991), Correre contro (1996), Quando una donna non dorme (1999-2000).Dal 1997 ha realizzato una lunga serie di documentari tra i quali: Rossellini sotto il vulcano, Per Yves Montand, L’anima in luce, Dov’è la fenice, Maschere, L’arte di Carolyn Carlson, Piccolo sole, vita e morte di Henri Crolla, Ombre lucenti, L’uomo segreto, dedicato ad Ennio Flaiano, Nulla va perduto su Mario Luzi, ed altri ancora.

Venendo proprio ai  documentari, ve ne mostreremo nel festival ben due. Si tratta di esempi  espliciti del cinema di Bizzarri: in entrambi il regista si avvicina  al personaggio con rispetto, senza svelare, così, tanto per il clamore di farlo. Rivela lentamente la natura dell’attore o del  poeta. Di Montand come di Mario Luzi. Con affetto e cura. Seguendo un  copione, ma lasciandosi affascinare -e lasciandoci affascinare- dagli  sguardi, dai piccoli cenni, dal tono della voce: le cose fuori copione, il materiale extrafilmico, si direbbe.

La ricerca fotografica è in Bizzarri pari a quella dell’allestimento del racconto. Minuziosa è quella: arricchita da tutto ciò che è utile mostrare; suggestivo ed intrigante l’altro. Nella convinzione, sempre rimarcata, della autonoma capacità rivelatoria dei luoghi, delle persone come della luce. E questo, diciamolo augurandoci di non meravigliare, sia nel repertorio, quindi nella sua selezione, nel suo montaggio, come pure nelle scene girate ex novo: Nino Bizzarri arricchisce oltremodo la scena; di chiari, di scuri, di toni. Anche qui, senza inseguire i virtuosismi, ma la consapevole certezza delle capacità dello sguardo. La fiducia nello sguardo dell’uomo.

A proposito del racconto, una piccola citazione: “Forse persino di questi avvenimenti un giorno la memoria ci sarà gradita”. Lo dice Enea ai più che meravigliati compagni. Lo dice giusto  durante le peggiori avversità della sorte e nei pericoli più evidenti.

Ed è così, anche se è difficile comprenderlo: nulla va perduto-  richiamando ad hoc il lavoro di Nino Bizzarri su Luzi. Nella vita,  niente possiamo permetterci di perdere e niente di fatto si perde, nonostante tutto. Dolore e disillusioni inclusi. Ogni concreta esperienza. Tutto fa biografia. Ci farà immensamente piacere ricordare ogni cosa, anche la più ostica. Tutto costruisce un mondo che ci contiene e ci consente di esprimerci: la mancanza di porzioni di memoria ci renderebbe acefali, incerti, confusi, più di quanto già non siamo. Inoltre ci priverebbe di radici, quelle che con sapienza non smette di ricercare Nino Bizzarri.Nino Bizzarri lo sa, lo pratica nel suo lavoro, e con grazia e poesia, pur selezionando, col sunteggiare proprio del cinema, nulla tralascia di raccontare.

Si punteggia un racconto. E tutto il racconto ci è caro, ogni sua parte: ci tiene compagnia, con la nostalgia, con i legami, con quella “tenerezza” – direttamente ispirata da Rossellini – che diviene manifesto e sceneggiatura di film e di una vita. La vita disponibile ed attenta di un maestro di questa arte nuova, la vita di Nino Bizzarri, in cerca di storie e momenti da raccontare.

Enzo Lavagnini